AI CONFINI DELLA LIBERTÀ

Giulio Virduci
7 min readDec 4, 2020

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È difficile trovare una parola in tutta la storia della filosofia politica più inflazionata di “Libertà”.

Dal concetto della “eleutheria”, la personificazione della Libertà nell’antica Grecia, alla Libertas romana, via via fino alla idea di “libertà dal peccato” dei pensatori cristiani medievali, alle libertà civili degli illuministi e, finalmente, ai giorni nostri.

Sono cambiati forse i significati, ma non il significante: la libertà (appunto!).

Movimento Fascismo e Libertà” è il nome ufficiale di un Partito Politico.

Evviva il comunismo e la libertà” recita l’ultima strofa di “Bandiera Rossa”, inno ufficioso dei comunisti del Bel Paese, che, ironicamente, fu mutata da una canzone dei repubblicani dell’800 (bandiera rossa la trionferà, viva la repubblica e la libertà), passata prima, però, in salsa socialista (Bandiera rossa la trionferà, Soltanto il socialismo è vera libertà).

In questo articolo, vorrei trattare di tre pensatori, vissuti in epoche diverse, e dal retroterra culturale oltremodo differente, accomunati, secondo il modestissimo parere del sottoscritto, da un’idea di “libertà individuale” in qualche modo estrema. Così marcatamente sui generis da apparire, come lo stesso titolo suggerisce, ai confini stessi della libertà.

Il primo pensatore di questo strano trio è Tommaso Campanella.

Nella sua opera più famosa, scritta nel suo lungo periodo di prigionia di 27 anni, il Campanella teorizzò una città utopica nel quale, per giungere alla libertà dello spirito, qualsiasi libertà individuale come da noi concepita veniva demandata alla comunità.

Una sorta di sovietismo ante litteram in cui il singolo doveva rendere conto alle istituzioni cittadine di ogni sua azione. Istituzioni che vegliavano sull’armonia della comunità fino a controllare gli aspetti più intimi e personali dei propri cittadini, finanche l’atto riproduttivo.

Sia chiaro, occorre contestualizzare il periodo in cui l’opera è stata scritta, la prigionia che ormai aveva indurito il cuore del filosofo calabrese, lo stato apparente di follia che Campanella dovette fingere per anni per mantenere la testa attaccata al collo, ed altro.

Campanella era un amante della libertà di pensiero, per la difesa della quale vide il sole a scacchi per buona parte della sua esistenza.

Quella che Campanella teorizzò fu una comunità in cui tutti cedevano totalmente la propria libertà ed i propri diritti per il funzionamento armonioso dello Stato.

La città del sole, governata da un principe che eccelle in tutte le arti, coadiuvato da tre prìncipi collaterali dal nome che evocano i ministeri del Soc.ing Orwelliano: Sapienza, Amore e Potestà.

La comunità è, quindi, totalitaria nel senso più “novecentesco” della parola. Tutto è controllato dallo Stato, e tremende sono le punizioni per chi non rispetta le regole, stilate dagli stessi uomini per la felicità degli uomini. E tutti vivono felici, o per lo meno sono “costretti alla felicità” da un sistema di ingranaggi che baratta in toto la libertà dell’individuo per l’ordine sociale.

Dal collettivismo estremo all’individualismo estremo degli altri due personaggi di questa esposizione.

Il Marchese De Sade: quello della vita dissoluta, dell’esaltazione di ogni perversione, dei romanzi pornografici e scabrosi. Un personaggio scomodo per qualsiasi sistema politico in cui è vissuto (ancien régime, periodo rivoluzionario, regno Napoleonico).

L’idea del “libertino” (epiteto che lui prediligeva particolarmente nella descrizione dei personaggi dei suoi romanzi) è quella di una libertà individuale estrema. Un “puro arbitrio” che non può essere limitato dalle leggi, dai dogmi morali che provengono dalla società, e quindi dall’esterno. Né tantomeno da qualunque contegno, freno inibitorio, sentimento di pietà, e quindi nemmeno dal proprio io.

Una tirannide della natura, intesa come “natura umana”, in cui l’individuo, creato per godere, non può avere altri fini che quelli necessari alla soddisfazione delle sue passioni, di cui leggi e relazioni sentimentali creerebbero un ostacolo. Si parla della natura perché in Sade l’idea di Dio è ridicola: una creazione dell’uomo atta a contenere quegli impulsi della natura, la quale viene addirittura dipinta come creazione di questo fantomatico “Dio”.

La sopraffazione del debole è un “atto dovuto” secondo la visione, se non proprio del Marchese, di coloro che vivono nei suoi romanzi. Poiché se la natura li ha creati deboli (non solo in senso fisico, ma anche deboli nella scala sociale), allora è giusto che questi vengano usati allo scopo di creare il piacere del più forte. Ed il piacere, in Sade, è il piacere sessuale tout court.

Il Marchese (ed è questa la principale differenza con l’ultimo della triade, Max Stirner) ha anche teorizzato una comunità, che lui vedeva nella Repubblica post-Rivoluzionaria. In un pamphlet “Francesi, ancora uno sforzo se volete essere Repubblicani” contenuti in quella che è una della sue opere più significative “La filosofia nel budoir”, il Sade immagina uno Stato senza leggi, una utopia di natura anarchica in cui non vige il “tutti contro tutti”, ma bensì il “Forti contro deboli”. Perché i “lupi non si sbranano tra di loro”. Sarà anche “homo homini lupus”, ma “lupus lupus lupi non est

Ed infine l’ultimo tassello, Max Stirner, il fondatore di quello che in seguito fu definito “anarco-individualismo”, ma al quale il filosofo diede piuttosto l’etichetta di “egoismo cosciente”.

La sua opera principale, “L’unico e la sua proprietà” spesso si perde in leziosità e sofismi: un libro difficile (soprattutto nelle parti iniziali), poco digeribile, a tratti confusionario, a tratti ripetitivo fino alla nausea. Ma questo sembra essere il disegno di Stirner: sfinire il lettore, per poterlo “colpire” meglio.

La sua dottrina non è molto difficile, tuttavia, da sintetizzare: l’individuo fa quello che egli stesso ritiene sia giusto per lui. Questa deve essere la sua stella polare: ogni gesto deve essere guidato dalla massimizzazione del suo benessere.

La libertà individuale, in Stirner, è, semplicemente, la piena libertà dell’individuo. L’individuo, l’unico, io (e non gia l’io), o che dir si voglia, rispetta la sua propria legge, e rifugge tutte quelle che possono essere le istituzioni che lo agglomerano ad altri individui (sia lo Stato, la Chiesa, le associazioni oppure i partiti). Non vi sono universalismi, religioni, ideali politici che possono legare gli individui tra di loro, perché per l’unico la sola bussola concepibile è egli stesso. E, sino a che le regole e le convenzioni della comunità lo aiutano in tal senso, allora ben vengano.

Il singolo deve godere di sé, della sua libertà, che non è concepibile se non fuori da ogni vincolo esterno, che sia intellettuale, morale, legale.

E come si può coniugare l’individualismo estremo con una comunità? Beh, a dire il vero, Stirner accenna solo brevemente a questo punto. La sua risposta è una federazione di singoli individui, i quali si accordano tra di loro per delle limitazioni volontarie della propria libertà al fine di non intralciare quella dell’altro. Dei contratti limitativi che fanno “legge tra le parti”, ma si cui si ha il pieno e totale diritto di annullare o derogare.

Una utopia descritta in modo sommario, quasi controvoglia. Perché a Stirner, probabilmente, della forma di governo non importa nulla. L’unico, e su ciò sì che il filosofo calca la mano, rispetta le leggi e le convenzioni della società fino a che gli fa comodo rispettarle.

Io non uccido e non rubo perché non voglio finire in galera. E mi avvalgo della protezione del governo finché sono troppo debole per garantire a me stesso che nessuno mi derubi o che mi uccida.

Secondo il buon Max, l’individuo ha diritto a prendere quello che ritiene necessario al suo benessere (non credo per pudicizia, ma forse più per “forma mentis”, Stirner non pone l’accento sul piacere sessuale come il Marchese De Sade).

E se l’ordine costituito non protegge più il mio benessere? In questo caso, l’arma dell’unico per liberarsi è la ribellione: un’azione fatta dal singolo, a suo stesso beneficio. La rivoluzione, che prevede l’unione di intenti con altri individui, è controproducente perché, appunto, prevede l’unione con altri soggetti, potenzialmente dannosi e limitanti per la libertà del singolo. L’umanità stessa è la sommatoria degli egoismi individuali, dove tutto ciò che è “collettivizzante” è una fuorviante astrazione contronatura.

Non vi è nulla di giusto, se non quello che io decido come bene per me stesso. E non vi può essere libertà se non quella che io prendo per me stesso con la “potenza” (che sia forza fisica, carismatica, intellettiva…), e non già quella concessa dall’alto, come fosse un contentino.

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